La diplomazia cinese alza la voce con Washington: non deve interferire negli affari interni. Il tutto mentre il governo di Pechino trasmette a Washington una nota ufficiosa chiedendo di considerare cautamente gli interessi dei risparmiatori americani nelle casse cinesi
QUARANTACINQUE minuti, poco meno di un’ora. Tanto è bastato per aprire una nuova crepa nei rapporti diplomatici, e non solo, tra la Cina e gli Stati Uniti. Il governo di Pechino non ha digerito l’accoglienza riservata al Dalai Lama nell’incontro bilaterale di sabato scorso tra Barack Obama e il
premio nobel tibetano.
Ricevuto nella Map Room, normalmente riservata alle interviste, Sua Santità Tenzin Gyatso ha concluso alla Casa Bianca la visita di 11 giorni a Capitol City. Nell’incontro con il presidente americano ha ribadito il suo apprezzamento per gli atteggiamenti di preoccupazione e interesse sulla delicata questione
tibetana da parte dell’amministrazione Obama, esprimendo approvazione per il sostegno morale e politico di Washington nell’ambito della conservazione religiosa e culturale del Tibet.
in Pennsylvania Avenue. L’incontro di sabato è il secondo in tre anni. Nel 2009, neo-eletto, Obama preferì non ricevere il Dalai Lama per non incrinare i rapporti con Pechino, ricevendo in cambio dure critiche dal movimento pro-Tibet.
L’amministrazione Obama, in ogni caso, sta provando sempre più a non
interferire nelle relazioni estere cinesi: non entra particolarmente in contrasto in merito alla questione dei diritti civili in Tibet (ma anche nella stessa Cina) e non interferisce su altri temi fondamentali per la tenuta globale, quali la crisi economica e i cambiamenti climatici. Non ultimo anche il ruolo fondamentale giocato da Pechino nella mediazione con la Corea del nord e l’Iran sul delicato tema della proliferazione nucleare, portato avanti nei mesi scorsi grazie ai summit bilaterali e agli sforzi diplomatici guidati da Jon Hunstsman, ex ambasciatore a Pechino e attuale candidato repubblicano alle primarie presidenziali.
risparmiatori americani nelle casse asiatiche. Un monito non poco rilevante se si considera che la Cina detiene 1.522 miliardi di dollari del debito pubblico statunitense. Fin troppo facile quindi dedurre quanto sia importante per gli USA non irritare il governo di Pechino.
In passato, anche i presidenti Clinton e J.W. Bush avevano incontrato la massima autorità del buddismo tibetano. Ma i tempi oggi sembrano esser cambiati. La Cina ora può permettersi di dire la sua nelle questioni economiche, e quindi anche politiche, degli States. Con una disoccupazione dimezzata rispetto a quella statunitense, Pechino esporta ogni anno in America merci per 365 miliardi di dollari.
Se si considera inoltre che Pechino può fare affidamento su una crescita
Le relazioni diplomatiche sull’asse asse Washington – Pechino, quindi, sono in pieno fermento. Le questioni aperte sono tante, dalle strategie economiche ai temi politici. Le divergenze appaiono notevoli, ma sono tutte accumunate da una sola grande certezza: nessuna delle due potenze per ora può permettersi di fare a meno dell’altra.economica annua del 10% (cinque volte quella americana), allora riesce facile capire quanto l’andamento economico della grande Repubblica Popolare possa incidere sull’instabile mercato statunitense. Il tutto, naturalmente, a fronte di chiare implicazioni politiche: tra meno di una settimana il Congresso dovrà esprimersi sulle misure per garantire gli interessi degli investitori stranieri e, sempre nelle stesse ore, il segretario di Stato Hillary Clinton sarà nel distretto di Shenzhen, seguita, tra un mese, dalla visita ufficiale del vicepresidente Biden.